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KENYA

Viaggio dei sensi e contrasti

INTERLUDIO DA 80 SCELLINI

Stringo forte i pugni, reprimo il crollo emotivo, nessuna via di fuga che offra l’intima spendibilità di questa inaspettata debolezza, e dopo alcuni istanti arriva il pianto.

“Lara, Nicole” balbetto, scrollandomi di dosso i goccioloni e deglutendo.

“Che succede? Che c’è?” si affrettano a chiedere con premura e straniamento.

KARIBU NAIROBI

Siamo arrivate in Kenya, l’arrivo di notte all’aeroporto della capitale, Nairobi. Contrattiamo una corsa verso l’indirizzo di Carlotta, un’amica che ci ospiterà per alcuni giorni. La pioggia scende copiosamente, rintoccano le 4 di mattina, eppure le strade brulicano di persone che si rincorrono a passo svelto verso la medesima direzione,

“Dove stanno andando tutti? Perché? Che succede?” mi affretto a chiedere al taxista.

“Piove, piove fortissimo” ripeto a voce alta.

“People are going to work, to Nairobi city center.”

Cala il silenzio e il mio sguardo torna a scrutare l’esterno: forme sinuose che ondeggiano nella proiezione sferica delle gocce aggrappate al finestrino. L’entusiasmo è assopito dalla stanchezza del viaggio e dall’ambiguità di queste sfumature nel buio della notte.

VISTA: “IF YOU LIKE IT, CROWN IT” – “SE TI PIACE, INCORONALO”

Carlotta ha già organizzato il nostro soggiorno a Nairobi. Gli spostamenti sono pianificati, l’approccio culturale è rispettoso, le negoziazioni equilibrate e le agevolazioni così fluide da risultare impercettibili. A noi spetta il piacere di coinvolgere i sensi nella contemplazione del luogo e dei suoi abitanti.

I grattacieli imponenti del Central Business District (CBD) si ergono come sentinelle del progresso occidentale: vie ampie e ordinate, vetrine lussuose, figure eleganti di uomini e donne d’affari compongono un quadro di efficienza e prosperità. Le profonde disuguaglianze socioeconomiche di Nairobi diventano lampanti non appena si esce dal centro: strutture ancora in costruzione, radure erbose macchiate da ammassi di plastica, vetro e rifiuti che timidamente riflettono i colori della terra, il cielo nuvoloso e l’aria carica di polvere e densa di fumo.

Le baracche proliferano lungo il ciglio della strada, con profili incerti e sbilenchi. Il caos antropico è tangibile: persone indaffarate che trasportano ogni sorta di merci, altre appiattite in ozio e discussioni ai bordi della strada, all’ombra di tende ai piedi di marciapiedi. Lungo strada, alti muri di confine su cui si staglia una scritta provocatoria: “If you like it, Crown it”.

Resto perplessa: un invito ai modelli occidentali di portare l’opulenza del centro verso le periferie? La città stessa sembra un campo di battaglia tra il desiderio di progresso e la realtà delle disparità sociali, un luogo dove ogni angolo racconta una storia di ambizione e contrasto.

OLFATTO: REALTÀ CRUDE E ODORI PENETRANTI A KIBERA

Arriviamo a Kibera, uno dei più grandi slum del Kenya. Carlotta, che ci ha trascorso mesi di volontariato, ci guida al centro Kibera Creative Arts (KiCA). La sua familiarità con il luogo è evidente e ci presenta i suoi amici più cari: Philip, il fondatore dell’associazione, Leonard, il talentuoso ballerino, Geoffrey, ed Erik Babake, il più entusiasta e divertente del gruppo.

La loro accoglienza è calorosa e premurosa. Ci rendiamo subito conto che la nostra presenza nello slum non è consuetudinaria. Il turismo non è ben visto e la comunità permette l’accesso agli estranei solo se accompagnati da qualche locale. Questa ferrea sorveglianza c’è nuova e un po’ mi opprime; mai prima d’ora mi sono sentita così limitata nella mia libertà di viaggio ed esplorazione.

Passeggiamo tra le baraccopoli, ci pervade un odore pungente, quasi penetrante: i canali colmi di rifiuti che scorrono ai lati delle vie emettono un fetore acre, un misto di marcescenza e rifiuti umani. L’aria è satura dell’odore del gasolio delle moto che passano incessantemente, mescolato con il profumo del cibo fritto dai chioschi. Le abitazioni sono costruite con lamiera e fango, con tetti di plastica o metallo che cercano di resistere alla pioggia. Il costo medio di un’abitazione è di circa 3.000 scellini kenioti al mese (circa 25 euro). I servizi sono scarsi: l’acqua è razionata e l’elettricità intermittente. Comparato con il centro di Nairobi, dove un appartamento può costare facilmente 50.000 scellini (circa 400 euro), Kibera rappresenta un mondo a parte. Molti abitanti partono all’alba per lavorare nel centro di Nairobi, affrontando più di 12 ore di lavoro al giorno per guadagnare abbastanza da sostenere le loro famiglie. La maggior parte non ha accesso a cure mediche adeguate; circa il 14% della popolazione di Kibera è affetta da HIV/AIDS. La scolarizzazione è un altro grave problema: solo il 50% dei bambini completa la scuola primaria. La mancanza di opportunità educative e lavorative spinge molti giovani verso la criminalità e l’abuso di droghe e alcol.

Per questo è nato KiCA. “Vogliamo aiutare la popolazione, soprattutto i giovani, a riscattarsi, a supportarli e farli sognare.” Questo spirito di solidarietà e generosità, che pervade ogni angolo di KiCA, ci fa riflettere su cosa significhi veramente vivere con, e per, la comunità.

Come si trova uno scopo di vita in mezzo a tali avversità? L’appartenenza comunitaria, forse?

“Qui la vita è dura, ma la gente sorride sempre.”

UDITO: EFFETTO COCKTAIL E LACRIME

Nairobi è una città che urla e noi vogliamo fuggire verso Namanga, al confine tra Kenya e Tanzania, per visitare l’Amboseli National Park e ammirare il Kilimangiaro. Attendiamo alla stazione dei matatu, i caratteristici minibus kenioti. Questi sono i luoghi di massima agitazione e caos: uomini che gridano e negoziano freneticamente per attirare passeggeri. La frenesia sonora intorno a me diventa insopportabile: sirene, annunci urlati dai microfoni, radio a tutto volume e un incessante jingle robotico di qualche giocattolo dei venditori ambulanti mi penetrano l’udito.

Attendo seduta in un’attesa infinita, alla mia destra un uomo robusto dal volto dolce e un po’ ingenuo ma la sua presenza emana una tranquillità rassicurante. L’autista si avvicina per riscuotere il denaro e Lara inizia l’energica contrattazione. Vengo richiamata silenziosamente dal mio vicino: mi mostra furtivamente il suo biglietto con il prezzo: 80 SCELLINI (50 cent), mi strizza l’occhio e lo ritrae velocemente in tasca. Il suo piccolo gesto di complicità mi sorprende e, per la prima volta, sento le mie difese abbassarsi. Lo comunico a Lara e mi chiudo in me stessa e inaspettatamente piango, sono commossa dal gesto semplice e fraterno, non mi sento più un’estranea.

Viaggiare comporta inevitabilmente scontrarsi con il diverso e l’ignoto, affrontare l’adattamento e lo stress. Ma alla fine, attraverso questi scontri e disagi, si arriva alla consapevolezza che il nuovo e il diverso, pur essendo duri e spaventosi, sono il principio dell’adattamento.

GUSTO: LATTE E MIELE

Siamo arrivate a Namanga, un piccolo villaggio ai margini del Parco di Amboseli, a notte fonda, dopo ore e ore su strade sconnesse, stipate in veicoli affollati e soffocanti. Le continue raccomandazioni di non girare da sole dopo il tramonto risuonavano nelle nostre menti mentre vagavamo alla ricerca del nostro alloggio. Ci viene incontro una giovane donna dal sorriso radioso: “Here you are!” esclama, come se ci stesse aspettando da sempre. Ci guida nella loro grande casa familiare, dove le diverse generazioni convivono in armonia. I bambini giocano nella corte centrale, mentre le madri sono appollaiate sulle sedie e li sorvegliano con occhio vigile. Dalla cucina, appare Big Mama, donna imponente dallo spirito protettivo, veste un abito largo a fiori, i capelli scuri e ricci e gli occhi eterocromatici.

“Come state, ragazze?” ci chiede con un sorriso rassicurante.

“Stanche, affamate e un po’ disorientate,” rispondiamo, cercando di non sembrare troppo disperate.

Big Mama annuisce comprensiva. “Non preoccupatevi, adesso siete a casa.”

Dopo averci ascoltato raccontare le nostre peripezie, ha organizzato tutto per noi: dal pasto caldo alla pianificazione del nostro viaggio ad Amboseli per il giorno seguente. Con naturale autorità, ha impartito ordini ai membri della famiglia, facendoci sentire finalmente al sicuro.

Prima di coricarci, ci offre del latte caldo con miele: un sapore aromatico e dolce che evoca sensazioni familiari e di protezione. Nicole viene trasportata nel ricordo della nonna e io sono avvolta da un abbraccio materno.

Rifletto sull’ospitalità offertaci da queste donne straordinarie. Questo viaggio ci ha portato a intervistare molte donne, approfondendo il tema della disparità di genere e le sfide affrontate in Kenya. L’indice di sviluppo di genere del 2021 per il Kenya era di 0,753, evidenziando il limitato accesso delle donne a risorse e opportunità rispetto agli uomini. Solo il 49% delle donne adulte partecipa al mercato del lavoro, rispetto al 77% degli uomini. L’accesso all’istruzione superiore rimane problematico, limitando le prospettive di carriera delle ragazze, aggravate dalle pressioni della tradizione patriarcale, che le vincolano a matrimoni combinati e a carriere e occupazioni scelte dalla famiglia.

Big Mama ha incarnato il cuore della famiglia. In quella casa, circondate dall’affetto e dalla protezione delle donne di Namanga, ci siamo sentite davvero integrate. Il loro calore e la loro cura hanno riscattato il nostro spirito, infondendoci nuove energie per proseguire il viaggio.

TATTO: UN ESPRESSIONE DI APPARTENENZA

Gli ultimi giorni del nostro viaggio e noi ci dirigiamo verso Mombasa e poi Watamu. Ancora una volta, ci attendono numerosi spostamenti con mezzi pubblici e un treno – sì, l’unico in tutto il Kenya – così unico da meritare una stazione che sembra più un prestigioso aeroporto internazionale. È un viaggio che richiede incastri perfetti di orari, coincidenze giocate sul filo dei minuti; un’impresa che, per gli standard kenioti, sembrerebbe irrealizzabile, figuriamoci per tre turiste. Eppure, finalmente, inizio a percepirci presenti, consapevoli, sicure, disinibite, LIBERE. Lo penso intensamente mentre osservo Lara e Nicole muoversi con disinvoltura per le vie dell’ennesima stazione dei matatu. Ora la riconosco: Lara parla serenamente con gli autisti dei mezzi, quelli che tanto temevamo pochi giorni prima, esplora, si ferma a familiarizzare con i bambini e le donne, scatta foto con le dovute precauzioni. Siamo LIBERE, penso ancora.

Tornare a Nairobi di notte non ci spaventa più. Sappiamo cosa fare. L’ultima cena incorona tutta l’esperienza. Un locale in festa, un solista che strimpella e canta musica reggae con un sorriso stampato sul volto che sembra fissato in una paralisi facciale. Costolette di agnello alla brace, ugali, sukuma wiki, nyama choma. Siamo rilassate, felici: “Non vorrei andarmene” dico, “vorrei restare ancora un po’.” Mai prima d’ora avevo vissuto un paradosso tale: ci è costato tanto il primo impatto, è stato duro anche per tre avventuriere come noi, ma ne è valsa la pena.

Abbiamo compreso che rispettare e concedere tempo all’adattamento è essenziale, che lasciarsi pervadere dal diverso è fondamentale, e che la paura e lo stress sono componenti indispensabili di questo processo. Queste emozioni, spesso temute e fuggite, sono in realtà le pietre miliari della crescita personale e della vera trasformazione. Ma allora, perché ce lo dimentichiamo così facilmente? Perché evitiamo queste sensazioni che ci definiscono come esseri umani e ci spingono verso nuove vette di consapevolezza? Perché rifuggiamo proprio ciò che, pur mettendoci a nudo, ci permette di riscoprire la nostra forza interiore?

Articolo e foto di Nicoleta Anca Milos

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