Kenya
Libertà da declinare al femminile
Parole e dialogo come risposta al dramma dell'HIV in Kenya
Sono trascorsi esattamente 43 anni dal 5 giugno 1981, quando per la prima volta venne segnalata quella sindrome che poi si sarebbe chiamata Aids. Due pagine sul Morbidity and Mortality Weekly Report del Cdc di Atlanta: da quel giorno l’Aids ha ucciso oltre 36 milioni di persone e in Africa, dove tuttora la prevenzione è carente, questo numero aumenta anno dopo anno.
In un contesto come quello del Kenya, dove abbiamo potuto conoscere personalmente la realtà che scorre negli slum, non si può non tener conto di uno dei fattori fondamentali che influenzano la diffusione di questa malattia: l’accesso all’istruzione. Senza equità sociale non può esserci un’istruzione di qualità, e questo è un rischio che compromette la salute di 7 giovani su 10 in Africa Sub-sahariana, perché questo è il numero percentuale di donne che non sanno cosa sia l’Hiv.

Non sono numeri, ma storie. Come quella di Rosemary, madre di tre figli, che ha vissuto sulla sua pelle lo stigma della malattia e ha saputo trasformarlo in emancipazione. La volontà di emancipazione di Rosemary non è stata unicamente conseguenza dell’emarginazione, ma è nata con lei. Se la porta addosso, ce l’ha incisa negli occhi quando racconta di essere stata una bambina che, con una palla di carta stracciata, amava giocare a calcio con i fratelli, cantava e ballava senza remore, studiava con dedizione ma a cui è stato impedito di accedere alla scuola superiore. Le sue condizioni familiari – racconta – non le hanno permesso di vivere la vita che avrebbe voluto, ostacolata in primo luogo da un padre alcolizzato e violento, indirizzata ben presto verso il lavoro nelle coltivazioni di canna da zucchero e lontana dai libri. Dopo l’imposizione di un matrimonio combinato ha iniziato a lavorare come lavandaia e, ben presto, è rimasta incinta del primo figlio, ma lei e il marito non erano nelle condizioni di sostenere l’arrivo di un bambino. L’attenzione e la cura non sono stati sufficienti e Rosemary, a distanza di due anni, quel bambino lo ha perso a causa di una grave malnutrizione. Una parte di lei si è spenta quel giorno, ma è riuscita comunque a reagire e, negli anni successivi, dopo altre tre gravidanze, ha scoperto di avere l’Hiv. Era il 2004, come riporta l’Aics, e nella baraccopoli di Korogocho, dove Rosemary viveva in quel periodo, le hanno persino impedito di utilizzare i bagni pubblici. Nel 2004 risuonava l’eco della conferenza di Durban, il primo congresso sull’Aids in Africa che aveva avuto come tema proprio “Break the silence”, l’urgente necessità di rompere il silenzio sulla parità di accesso alle cure, su una prevenzione migliore e su un sostegno governativo all’istruzione.

La svolta è arrivata nel 2005, quando insieme ad altre quattro donne sieropositive, Rosemary ha dato vita all’associazione Tuinuke Na Tuendele Mbele. È una realtà rivoluzionaria, quest’associazione, perché propone fin da subito di affrontare le sfide sociali che colpiscono le madri sieropositive, soprattutto negli insediamenti come lo slum di Korogocho. L’obiettivo è migliorare il tenore di vita delle donne attraverso l’istruzione e attività generatrici di reddito, con la missione di potenziare e stimolare lo sviluppo fornendo supporto istituzionale alle comunità locali. A distanza di vent’anni il contesto socio-culturale in cui si è fatta spazio Tuinuke Na Tuendele Mbele non è cambiato poi così tanto. «C’è più consapevolezza – dice – ma resta ancora forte l’influenza degli anziani della chiesa, quindi la libertà di scelta è limitata. Tuinuke è stata creata per dare alle donne sieropositive un luogo in cui potersi informare, una voce e un posto dove lavorare con piacere, combattendo lo stigma e la discriminazione, ma soprattutto per essere economicamente responsabili in famiglia».
Come spiega il Jaids (Journal of Acquired Immune Deficiency Syndrome), per ridurre il rischio di trasmissione di infezione da Hiv dalla madre al figlio è necessaria una più ampia integrazione dei servizi di pianificazione familiare, di salute materna e infantile e nei servizi di salute riproduttiva. Il contrasto alla povertà, l’accesso all’istruzione, il supporto alla progettualità personale e l’emancipazione sono elementi fondamentali.


Non pretendo molto dai miei stay alberghieri quando viaggio per business. E’ sufficiente che siano semplici, puliti, h24, ho smesso di sperare che la colazione includa il mio stupido yogurt di routine. Se sono fortunata riesco a opzionare qualche hotel dotato di palestra, specie dopo lunghi voli con scalo e intercontinentali. Provo così a riaggiustare il battito con della sana attività fisica, in questo modo credo di attenuare gli inestetismi femminili del microcircolo e gli effetti del jet lag. Prima di prenotare l’hotel di Jeddah ho quindi contattato la reception per assicurarmi di poter accedere alla gym. Dopo i miei due precedenti soggiorni a Riyad, sapevo che sarei potuta incappare in un hotel con la palestra riservata a uomini e donne in turni distinti, oppure in una “Fitness gym women only” negli spazi pubblici. La prima volta nella capitale il receptionist mi aveva infatti impedito di farmi una corsa in tapis roulant il mattino, anche se il turno degli uomini era completamente vuoto. Mi sembrava una follia, anche se mi ero detta di fare la brava. Invece no, me ne andai nel cortile posteriore dell’hotel, in un quartiere costruito sulla sabbia dove non sembrava esserci anima viva, e corsi, lontano da sguardi indiscreti, sapevo di non essere vestita a norma, ero in bermuda e maniche corte. Nel paese le donne straniere possono dal 2018 circolare senza vestire la abaya, senza coprire il capo, è sufficiente che vestano indumenti non attillati che coprano fino a sotto il ginocchio e sotto il gomito, non esagerando col make up. La maggior parte delle saudite invece vestono ancora il niqab, solo alcune mostrano i meravigliosi tratti arabici e la pelle olivastra alla luce del sole, anche se a volte mi destabilizza notare come molte di loro operino all’iride per arrivare a mostrare gli occhi azzurri. In tutti i paesi musulmani, specialmente qui, le incontro regolarmente a capo scoperto alla toilette, sorridenti ed estremamente solidali tra di loro, intente a pettinarsi, farsi belle, sciacquarsi finalmente dopo aver sofferto le alte temperature sotto gli abiti neri. Ne ho conosciuta casualmente qualcuna nei coffee shop o per lavoro. Sempre da poco è loro permesso uscire sole nei luoghi pubblici, così come riunirsi con persone di sesso opposto senza doversi separare in sale riservate a uomini e donne. La prima volta che conobbi un’imprenditrice saudita fu qualche anno fa alla fiera di Dubai, riuscivo a vederle solo gli occhi, ed era comunque così convincente, determinata.

Il nostro viaggio non si è concluso in sartoria, ma la percezione sulle disparità di genere non è tanto diversa anche in altre aree del Kenya. A Mombasa abbiamo incontrato Celestar, una ragazza giovane e intraprendente, che ci ha confermato che lo stigma sull’Hiv, ancora oggi, allontana molte persone dai centri di cura: «Non c’è un vero programma nazionale, ma ci sono donne che personalmente si assumono la responsabilità di fare informazione e prevenzione nelle nostre scuole». Celestar percepisce una forte scissione tra legge formale e pratiche culturali, lo si nota soprattutto nel mondo del lavoro: lei è una Dj, la discriminazione la colpisce in prima persona. «Gli uomini non ammettono che tu abbia opinioni, spesso opprimono la libera scelta, favoriscono la carriera dei figli maschi e osteggiano l’emancipazione femminile» spiega Celestar, che ancora aggiunge come ci sia disparità, anche oggi, nel sistema scolastico.
Ci sono tuttavia alcune eccezioni, come il villaggio matriarcale di Umoja, esempio di resilienza e determinazione dove viene offerto un rifugio sicuro alle vittime di violenza e discriminazioni. Dalle interviste condotte durante il viaggio in Kenya emerge una percezione della tradizione come riflesso della volontà maschile, perché trattengono le donne e ne soffocano i diritti fondamentali.
Storie come quella di Rosemary sono rivoluzionarie, ma altrettanto lo sono le parole. La poesia popolare, in Africa orientale, ha fornito un mezzo attraverso il quale le comunità hanno elaborato il trauma dell’Hiv/Aids, offrendo testimonianze dirette delle sue devastanti conseguenze e contribuendo alla comprensione e gestione della malattia. L’arte è un potentissimo strumento di sensibilizzazione e la poesia è stata utilizzata come mezzo di comunicazione e negoziazione sociale, rendendo il discorso sulla malattia più accessibile e rilevante per la comunità locale. E le parole, il dialogo, continuano a essere strumento per superare lo stigma, per questo il viaggio esplorativo è un mezzo fondamentale per costruire una rete di scambio di conoscenze, per creare una connessione tra donne che vada oltre i confini di un singolo Paese, per ricordarci che essere Libere di Viaggiare porta con sé la necessità di condividere questa libertà, condividere esperienze e conoscenze in un’ottica di decolonizzazione della mente. I processi di cambiamento si stanno innescando, e non sono da declinare solo al femminile.


Nicole Pizzolato (@ni_edm) e Lara Berthod (@laraberthod) del progetto Libere di Viaggiare (@liberediviaggiare) hanno conosciuto e intervistato Rosemary durante un viaggio in Kenya, realizzando insieme alla giornalista Alessia Taglianetti (@alessia.taglianetti) il reportage che puoi leggere sulla piattaforma NOSIGNAL cliccando sul link
Per informazioni sulle esperienze di volontariato presso la sartoria Carlotta Toniato (@lamad.0nna)