Senegal: la Storia dei Bambini Talibe e dei Marabù
Quando sono partita per il Senegal, avevo in mente un’idea vaga di ciò che avrei trovato. Mi ero iscritta a un programma di volontariato con l’associazione M. , un centro che si occupa dell’assistenza dei bambini Talibe che gravitano intorno al sistema delle Daara: strutture trasformate che, sfruttando la povertà e la religione, hanno perpetuato un sistema di abuso nei confronti dei bambini.
Il centro di accoglienza si trova a Malicounda, un piccolo villaggio rurale a circa un’ora da Dakar nel sud del Senegal. L’edificio era semplice, con il caratteristico tetto in lamiera e strutture essenziali: aule, una cucina, una piccola infermeria, e dormitori per i volontari. All’arrivo mi accolsero due volontarie italiane, V. e M., che erano già lì da qualche settimana e organizzavano attività ricreative per i bambini. Fatu, la cuoca, preparava i pasti: panini spalmati di maionese e dado vegetale, un piatto semplice ma che doveva sfamare centinaia di bambini ogni giorno. Si dividevano 60/70 baguette per circa 300 bambini, mentre il lunedì, con meno presenze, avevano solo riso e latte. Noi volontari mangiavamo pasta, qualche verdura e riso quando i bambini non c’erano, ma il caldo toglieva anche la fame. C’era anche Ibu, l’infermiere locale che tutte le mattine, cercava di prendersi cura dei bambini, ma con pochissimi mezzi. Le ferite sui piedi, le infezioni, le abrasioni erano il pane quotidiano. Ibu cercava di curarli con quello che aveva: cerotti, disinfettanti, pomate. Ma quando i bambini giocavano, tutto spariva: il materiale medico veniva sottratto, le ferite si riaprivano.
I bambini arrivavano al centro ogni mattina, sempre sgualciti e carichi di paura. Nonostante il caldo insopportabile, non si toglievano mai le giacche e le felpe, per timore che altri gliele rubassero. Ne arrivavano sempre più di quanti potessimo gestire e con fatica riuscivamo a garantire loro un pasto, un bagno settimanale, un cambio di vestiti, uno spazio per giocare e lezioni basiche di francese e matematica.
Nei primi giorni, la sensazione di vuoto era quasi palpabile. Le ore non passavano mai. Nel mio cuore si mescolavano diverse emozioni: rabbia, tristezza, ma anche una certa comprensione. Mi chiedevo: cosa potevo fare in un posto dove la sofferenza era tanto evidente quanto l’impossibilità di risolvere le ingiustizie in maniera concreta? Ho iniziato a fare domande, a parlare con i colleghi locali, a cercare di capire meglio le dinamiche che reggevano quel sistema delle Daara e dei bambini Talibe, chiedendomi come potessi, nel mio piccolo, fare qualcosa che avesse davvero un senso.

La Storia dei Bambini Talibe: Un Sistema che Sfrutta la Povertà e la Religione
La storia dei bambini Talibe è strettamente legata a quella dei Marabù e delle Daara. Queste scuole coraniche, nate secoli fa per insegnare ai bambini i precetti islamici, si sono trasformate nel tempo in vere e proprie trappole sociali. I Marabù dovrebbero educare i ragazzi, insegnando loro a leggere e scrivere il Corano, ma in realtà molte Daara sono diventate luoghi di sfruttamento. Bambini tra i 4 e i 18 anni, spesso provenienti da famiglie povere, vengono prelevati e costretti a mendicare per strada per conto dei Marabù, ricevendo in cambio poco cibo e una sopravvivenza incerta.
La vita nelle Daara era segnata dalla privazione di tutto: dall’educazione formale all’accesso ai diritti basilari come l’acqua potabile, un posto dove dormire, vestiti decenti. La maggior parte dei bambini viveva in condizioni di miseria, costretti a dormire su pavimenti di terra, senza letti, senza un angolo dove sentirsi al sicuro. Il caldo diurno si trasformava in un’umidità insopportabile di notte e i bambini dormivano tutti ammassati, stretti l’uno contro l’altro, in un abbraccio forzato.
La realtà è che i Talibè Vivevano ai margini della società, privi di diritti, con una vita segnata dalla sopravvivenza quotidiana. La mia speranza era che, attraverso il nostro piccolo centro, avessero almeno un posto dove sentirsi al sicuro per un po’, lontano dalla durezza della strada e dalla brutalità dei Marabù. Ma sapevo che anche questa era solo una goccia nell’oceano.
Un Sabato al Cuore della Daara: Un'Esperienza Diretta
Un sabato mattina, insieme agli altri volontari siamo andati a pulire una delle Daara più grandi della zona che ospitava circa 100 bambini e veniva gestita da due Marabù. Era una strutturata su due piani, molto fatiscente e “addornata” con stracci appesi per coprire buchi nei muri e nel soffitto. I bambini erano tutti ammassati in una stanza piccolissima, dove stavano pregando, recitando canticchi in arabo che, con ogni probabilità, non comprendevano veramente. Il pavimento, composto interamente da sassi e sabbia battuta, rendeva difficile qualsiasi tipo di pulizia. Nonostante ciò, ci siamo adattati, cercando di fare il meglio possibile con qualche scopa per portare almeno un minimo di ordine. Durante quell’esperienza, ho contratto una delle infezioni più comuni in quelle condizioni: un verme sottocutaneo, che si trova nelle feci degli animali. Si manifesta con filamenti rossi e febbre, e mi ha lasciato cicatrici visibili, che porto ancora oggi. Per i bambini che vivono nelle Daara, questo tipo di malattia è solo una parte della loro quotidianità, qualcosa con cui convivere, senza speranza di cambiamento. La mia reazione ha lasciato una consapevolezza dolorosa: la loro sopravvivenza quotidiana, contrariamente alla mia, è fatta di piccole guerre perse, di cicatrici fisiche e psicologiche che nessuno sembra notare.

La Difficoltà di Essere Donna: La Violenza del Sistema e la Cultura Senza Filtro
Un altro aspetto che mi ha segnato profondamente è stato il ruolo delle donne. Come donna, non mi sono mai sentita completamente a mio agio in un contesto come quello. La cultura senegalese, purtroppo, ha un impatto profondo sulle dinamiche di potere, e l’autorità nelle strutture come quelle delle Daara è quasi esclusivamente maschile. Non solo le donne sono spesso vittime di discriminazione, ma la loro possibilità di influire sui bambini e sulla loro educazione è ridotta al minimo.
Ho sentito più volte dalle mie colleghe, V. e M., la frustrazione di non riuscire ad avere lo stesso impatto che un uomo avrebbe potuto avere. I bambini erano spesso più aggressivi e distaccati con noi donne, forse perché cresciuti in un sistema Patriarcale. La presenza di uomini locali, in particolare A. e M. (due ex Talibe che ora aiutavano nel centro), era cruciale per mediare le situazioni più difficili, per gestire i bambini e mantenere l’ordine.

Mia Riflessività: Il Viaggio che Cambia la Visione del Mondo
All’inizio del mio viaggio, pensavo di avere una missione chiara: raccontare la realtà dei bambini Talibe e, con i pochi mezzi che avevo, portare un cambiamento. Credevo che avrei potuto fare la differenza, offrendo ai bambini piccole soluzioni: insegnare loro una parola in più, regalare loro un sorriso, dar loro la sensazione di non essere invisibili. Mi sembrava un obiettivo semplice, ma fondamentale.
Ma alla fine del mese, la mia missione era cambiata. Non avevo soluzioni, né la certezza che la mia presenza avesse avuto un impatto tangibile. Eppure avevo acquisito qualcosa di molto più profondo: la consapevolezza che non sempre il cambiamento è immediato. Avevo imparato a rispettare quella cultura, con tutte le sue contraddizioni e ingiustizie, e a comprendere che a volte ciò che possiamo fare è semplicemente osservare, testimoniare, senza pretendere di risolvere tutto. La vera lezione era nel vedere le cose da una nuova prospettiva, riconoscendo quanto sia grande la sofferenza, ma anche quanto sia importante, nei limiti di quello che possiamo fare, cercare di alleviarla.
Articolo e foto di Nicoleta Anca Milos