45 giorni per tornare a casa
Chilometri di noi
Testo e foto di Denise Miotto
L’ultimo mese in Australia è stato emotivamente provante: da una parte non vedevo l’ora di tornare a casa, riabbracciare tutti e raccontare – come un disco rotto – tutto ciò che avevo vissuto durante quest’anno sabbatico dall’altra parte del mondo; dall’altra, però, significava anche chiudere un capitolo e staccarmi da una terra che mi aveva profondamente cambiato la vita.
L’Australia mi aveva accolta come una cerbiatta intimorita, e ora mi lasciava andare via come una leonessa fiera.
Così decisi che sì, ero pronta a tornare in Italia, ma l’avrei fatto in grande stile: organizzando un lento ritorno. Un viaggio nel viaggio, che mi avrebbe dato l’illusione che nulla stesse davvero per concludersi, ma che stessi semplicemente andando a conquistare un’altra fetta di mondo.
Iniziava così la realizzazione di un progetto tutto mio: partire da sola con l’obiettivo di visitare, in 45 giorni, tre Paesi — Cambogia, Vietnam e Laos.
L’ultimo regalo che mi sono fatta prima di lasciare l’Australia è stato un tatuaggio, per infondermi coraggio: la parola αὐτάρκεια, accompagnata dalla mappa del mondo.
Significa “bastare a sé stessi” — un tributo al mio viaggiare in solitaria.

CAMBOGIA
“Bye, Straya, I’ll love ya forever”, la saluto dal finestrino dell’aereo che mi porta a Singapore, per uno comodissimo scalo di 12 ore.
“Beh, almeno sono in uno degli aeroporti più belli al mondo”, penso, mentre mi sdraio su una panchina che sarà il mio stay for the night a cinque stelle.
Provo a rilassarmi e inizio a scrollare qualche reel su Instagram. L’algoritmo, che fa bene il suo lavoro, mi propone un’intervista a Taylor Swift in cui dice:
> “Scary news is: you’re on your own now.
Cool news is: you’re on your own now.”
Rido tra me e me, e penso che Mark Zuckerberg vede, Mark Zuckerberg sa…
La Cambogia mi riserva un’accoglienza frastornante: “Tuk Tuk!”, “You need a Tuk Tuk?”, “Tuk Tuk, madame!” Devi farti largo tra la marea di autisti che ti assillano a ogni passo.
Eppure mi sento subito viva. Tutto è nuovo, strano e curioso: i cavi della corrente come matasse di lana ingarbugliate, i tuk tuk che sfrecciano in ogni direzione, i venditori ambulanti immersi nello smog, che scacciano gli insetti con gesti rapidi delle mani
Festeggio il mio compleanno ad Angkor Wat, immersa nella giungla e tra i templi. Mi sento come Lara Croft in Tomb Raider, mentre mi faccio strada tra le rovine di questo luogo senza tempo.
È qui che incontro per la prima volta il Mekong, un fiume imponente che attraversa ben sei Paesi del sud-est asiatico.
Mi ci affeziono subito, senza sapere che sarebbe diventato il mio fedele compagno di viaggio, accompagnandomi con il suo scorrere inarrestabile in tutte le tappe successive.


Il Mekong è vita: non solo sotto la superficie dell’acqua, ma anche sopra, dove si trovano i celebri villaggi galleggianti, palafitte abitate da intere comunità locali.
Li ho visitati con un’escursione al tramonto, a bordo di una piccola barca che scivolava silenziosa a filo d’acqua. Qualcuno si affacciava da una finestrella e ci salutava; c’era chi vendeva frutta o pesce al piccolo mercato galleggiante, chi cucinava sotto una tettoia di lamiera. Osservavo, assorta, e mi chiedevo come dev’essere vivere così, cullati ogni giorno dal movimento del fiume in una profonda connessione con la natura.
Da Siem Reap fuggo qualche giorno sull’isola di Koh Rong, a rilassarmi, prima di rientrare nel caos della capitale Phnom Penh, dove scopro una vita notturna insospettabile e sfrenata, degna delle serate folli di Las Vegas.
VIETNAM
Arriva il Border Day: salgo su un autobus che mi porterà a varcare il confine via terra. Mi rilasso tra musica, film e snack, finché non arriviamo alla frontiera.
Ai controlli, mi prende quella mezza ansia per il cambio di Paese: sorridi, ma non troppo, mentre gli ufficiali in divisa ti squadrano da capo a piedi e, serissimi, ti stampano il passaporto.
È fatta. Sono dentro. Welcome to Vietnam.
L’eccitazione dura poco, però. A Ho Chi Minh, senza internet, con il buio che avanza e il caos cittadino, mi sento sopraffatta. Otto milioni di motorini che sfrecciano come un fiume in piena.
Resto immobile a bordo strada, finché un signore si avvicina e mi dice: “Ti devi buttare: loro ti schiveranno.”
E niente, a passi lenti ma decisi mi butto, pregando per l’anima mia.


In hotel mi prende un attacco di panico. Mi sento persa e tutto mi appare distorto, per un attimo penso persino di mollare tutto, di anticipare il ritorno a casa.
Poi mi sistemo nel letto e respiro profondamente, mi ripeto che è solo stanchezza. Chiudo gli occhi e cado in un sonno profondo.
Mi sveglia un vociare forte: urla di bambini che corrono, ridono, cantano. Mi affaccio alla finestra: il mio hotel dà proprio sul cortile di una scuola elementare vietnamita. C’è il sole, il cielo è azzurro.
Tutto è già migliore e la crisi di ieri sera sembra lontanissima.
Mi sento riposata ed elettrizzata all’idea di essere in un Paese nuovo, che aspetta solo di essere esplorato.
Prenoto una corsa con Grab, un’app per muoversi in Asia, e salgo in sella dietro a uno sconosciuto.
“Lo sto facendo davvero? Oh sì, Denise!”
Del Vietnam ho amato gli angoli silenziosi delle pagode, il navigare nella fitta giungla a bordo di una sampan — una barchetta a remi guidata da una donna del posto —, le mani di un’anziana intrecciare bambù per realizzare un iconico cappello a punta.
Ho amato le reti da pesca tirate a riva dai pescatori, l’atmosfera romantica delle lanterne di Hoi An, gli antichissimi e autentici villaggi di Sapa, circondati da verdi terrazzamenti di riso, i mercati vivaci di Hanoi, il profumo dell’incenso a Quang Phu Cau.
Ogni scena era un piccolo quadro da portare a casa.


LAOS
“Dov’è che vai, in Laos? A far che?”
È esattamente la reazione che mi aspettavo quando ho detto ai miei conoscenti che avrei proseguito il mio viaggio in Laos. Un Paese ancora poco battuto, fuori dalle rotte del turismo di massa.
La verità è che nemmeno io sapevo bene cosa aspettarmi, ma sentivo che dovevo andare.
La mia missione è semplice: trovare bellezza ovunque.
E lui, il Laos — quasi a volermi ringraziare per non aver dubitato delle sue potenzialità — mi accoglie con una colata d’oro che ricopre ogni cosa: tetti, statue, templi.
È tutto dorato e scintillante, soprattutto durante la golden hour, quando la luce calda e gialla accarezza ed esalta ogni dettaglio. Uno spettacolo unico.


Ero felice, quella sera, appena arrivata a Vientiane, la capitale. Cammino al tramonto con il Mekong che mi scorre accanto. Mi fermo in un ristorantino dove ordino il mio centesimo fried rice e proprio in quel momento, un messaggio nel gruppo WhatsApp di famiglia:
“Non vorrei dirvelo così, ma la nonna non ce l’ha fatta.”
Leggo, poso il cellulare, inizio a mangiare.
Cerco di far finta di niente, ma le lacrime mi tradiscono e iniziano a rigarmi il viso. Pago e me ne vado.
Mancavano dieci giorni e l’avrei abbracciata, mi aveva aspettato così a lungo.
Era la cosa che più temevo: perdere qualcuno mentre ero sola, dall’altra parte del mondo, senza nessuno da abbracciare.
Il giorno dopo piango per tutto il tempo.
Faccio quattro ore di autobus da Vientiane a Vang Vieng piangendo silenziosamente. Arrivo stremata.
Quando dico che il Laos è stato per me una carezza, intendo che quel luogo mi ha letteralmente cullata. Mi ha accolta nel mio stato di agitazione e dondolata lentamente.
La sua natura incontaminata mi ha baciato la fronte, mentre la sua povertà — le strade rotte e polverose, i tombini aperti, i ponti traballanti — mi ha aperto gli occhi sulla mia fortuna.
Le sue cerimonie antiche, come il Tak Bat, i templi sontuosi, i monaci scalzi all’alba che chiedono l’elemosina ai fedeli, mi hanno ricordato che siamo tutti di passaggio.


Il Buddhismo insegna il non attaccamento, tutto nasce e tutto finisce, bisogna accogliere ogni esperienza con gratitudine, senza temerne la fine.
È lì, in quel silenzio sacro, che ho immaginato la nonna libera nel cielo.
E l’ho lasciata andare. Leggera, mentre segue le mie avventure da una nuvola soffice.
Gli ultimi giorni di viaggio sono volati.
La sera prima di tornare in Italia, mi sentivo piena, grata, viva.
Mi guardavo indietro e faticavo a credere a quanta strada avessi percorso.
Eppure, sento che non riuscirò mai ad esprimere quanto questo viaggio sia stato importante. Forse va bene così.
Resterà un frammento di vita solo mio, custodito anche con un pizzico di sana gelosia.