Non è un lavoro per donne
Kilometers of us
CZ, Commerciale Estero, 29 anni
Capacità di adattamento, conoscenza di almeno due lingue straniere, abitudine al lavoro in ambiente multiculturale, 50% del tempo in trasferta, propensione al risultato, networking skills, autonomia nell’organizzazione del lavoro. Può solo essere l’identikit Linkedin di una delle figure professionali più richieste dal mercato del lavoro del Belpaese, fortemente vocato alle esportazioni: il cosiddetto Export Area Manager, altresì conosciuto in lingua italica come Commerciale Estero. Un incarico che è sempre stato raramente conferito alla compagine femminile ma che sta gradualmente tingendosi di rosa all’interno delle figure manageriali italiane. Le donne manager in Italia sono oggi il 21,9% del totale a fronte del 12,2% nel 2008, con le under 35 che guidano la nuova tendenza forti del ricambio generazionale, di una prospettiva più globale e di una formazione aggiornata.
“Fare export” è un lavoro appassionante e sfidante, che porta in luoghi molto lontani e verte il più delle volte sull’abilità di sapere instaurare un canale comunicativo propositivo, empatico, scevro dal pregiudizio, qualsiasi sia il codice culturale da utilizzare con l’interlocutore. La vendita e la partnership sono spesso solo il risultato di pazienti interazioni, adattamenti culturali, sconfitte, riprese dei contatti, incontri casuali, condivisione di network, idee a volte estemporanee.
È un mestiere che richiede lucidità, apertura, resilienza, motivazione, autocontrollo. Di certo reclama una chirurgica organizzazione per garantire una work-life balance appena soddisfacente, così come un corpo energico per fronteggiare jet lag consecutivi, sbalzi metereologici, cambiamenti alimentari e della routine, giornate a volte interminabili per via degli appuntamenti, delle fiere, delle necessarie e risolutive cene di lavoro. E poi, si, c’è il tema della sicurezza, di cui il/la professionista deve essere il/la prima titolare, assieme all’azienda che rappresenta. Soprattutto perché non mi risulta che le nostre assicurazioni internazionali di viaggio arrivino a proteggerci o risarcirci in tutti i frangenti possibili, come nel caso delle molestie sessuali.
Per tutti questi motivi, non sembra essere un lavoro per donne.
Ho iniziato a svolgere questo lavoro nel 2019, a 23 anni. All’epoca ero un cosiddetto Junior Export Area Manager. Ero l’unica ragazza della forza vendita dell’azienda. Analogamente, i titolari delle imprese estere che mi erano state assegnate erano esclusivamente uomini. Stavo ancora completando gli studi della laurea magistrale e avevo solo un’invincibile voglia di misurarmi nel mondo del lavoro, in quanti più paesi possibili, relazionandomi con chissà quali realtà, persone, circostanza di cui poco sapevo. Detestavo l’idea di stare seduta alla scrivania davanti a quel monitor per le canoniche 8 ore.
Subito arrivò la prova della realtà e lo scontro con gli stereotipi. “Fai clienti solo per il tuo aspetto fisico”, “puoi fare questo lavoro solo perché sei giovane, poi vedrai quando avrai una famiglia”, “se vai in quel paese musulmano ti appendono come un kebab invece che riceverti in ufficio”. Ci sarebbero altre innumerevoli sofisticatezze che potrei ricordare. In realtà, col passare degli anni, l’arrivo dei primi risultati, il consolidamento dei mercati, ho capito che la mia credibilità dipendeva solo da come mi sarei posta verso il mio obiettivo professionale, la mia integrità come individuo e professionista, la lealtà verso me stessa e il mio potenziale, la calma, l’analiticità, l’efficienza e il più delle volte l’umanità verso il cliente e anche verso i colleghi o i conoscenti che mi avevano giudicato. Nel corso del mio percorso sono arrivata a gestire il mercato europeo, medio orientale e dei paesi post-sovietici, stabilendo legami e relazioni straordinarie associate a memorabili ricordi di rispetto, cooperazione, amicizia. A volte mi sono approcciata a situazioni apparentemente poco accomodanti. In alcuni paesi non mi è mai stata conferita una stretta di mano, o inizialmente negli incontri c’era un eccessivo riserbo o atteggiamento ossequioso per via della mia nazionalità, genere e giovane età. Quasi che il mio essere donna richiedesse più rispetto, distanza, accondiscendenza, a volte protezione. Porsi alla pari con gli interlocutori internazionali è sempre stato un percorso avventuroso, a volte lento, altre volte veloce, mai distruttivo, sempre nuovo. E’ vero, per una donna si tratta quasi sempre di una posizione di partenza discriminante in cui siamo chiamate a “conquistarci” il rispetto e la stima professionale dell’interlocutore. Ciò tende ad accadere soprattutto poiché dal gentil sesso ci si aspetta difficilmente che una presunta maggiore disponibilità emotiva femminile possa essere convivere con franchezza, efficienza, determinazione, sangue freddo. Tuttavia, quale soddisfazione quando lo stereotipo è abbattuto e il rispetto consolidato, a volte sembra che il rapporto instaurato diventi quasi indissolubile, forse è anche perché noi donne riusciamo a dimostrare di essere davvero concrete e a trasferire un senso di affidabilità.
Viaggiare sole per business non è solo un tema di gestione delle relazioni interpersonali. Da una ricerca condotta nel 2018 dalla Global Business Travel Association in partnership con l’American International Group Travel è emerso che più di 8 donne su 10 dichiarano di aver avuto problemi o incidenti legati alla sicurezza mentre viaggiavano per lavoro. I risultati principali dell’indagine condotta tra le viaggiatrici mostrano che la preoccupazione per la sicurezza ha un determinato impatto sull’organizzazione e la gestione del viaggio, con circa l’80% delle intervistate che ha ritenuto di aver inficiato alla propria produttività in ragione di opportuni accorgimenti cautelativi.
Per noi venditrici a volte gli imprevisti iniziano ai controlli di frontiera. Non solo dobbiamo in via procedurale controllare che i nostri documenti di viaggio siano idonei, può anche essere sufficiente che ci siano troppi timbri sul passaporto a renderci individui sospetti. Per via dei miei timbri, mi capitò di essere trattenuta un paio d’ore notturne al controllo passaporti del Kuwait, solo per verificare un paio di passaggi sul mio conto. Una volta atterrai invece nella notte all’aeroporto di Tashkent in periodo pandemico. Dopo due ore di attesa per il ritiro bagagli venni condotta e chiusa in uno stanzino perché trasportavo circa 4 kg di campioni di caffè. Gli agenti doganali mi diedero due opzioni: “o ci lasci il carico o”..aprì un cassetto silenziosamente e ammiccando mi fece cenno di depositare dei “Nalichnie/contanti”. “Quanti ne vuoi?” chiesi. “100$, o questa roba non esce”. Credo di aver imparato due cose da quell’esperienza: munirsi sempre di qualche contante e valutare quasi solo voli con orario diurno ed eventuali scali protetti in lounge. Il giorno e la notte costituiscono variabili importanti per gli spostamenti logistici, il sovraffollamento o l’isolamento di noi viaggiatrici. Una volta uscite dall’aeroporto dobbiamo assicurarci che eventualmente il nostro rental car sia aperto, che nel paese in cui guideremo ci siano condizioni sicure e che soprattutto le donne alla guida siano tutelate. Se il nostro cliente non ci organizza il pick up e decidiamo di prendere un taxi, dobbiamo ricordarci di avere il cellulare carico o quanto meno un power bank a portata di mano. In un gruppo whatsapp di colleghe export manager ho imparato invece a inviare la posizione o la targa a famigliari o congiunti quando non mi sento al sicuro. Una professionista tedesca sosteneva di aver adottato quest’abitudine in una missione in Vietnam, dopo una pessima esperienza con un tassista malintenzionato. Ho avuto il timore di imbattermi in Turchia in una circostanza affine quando sono finita sola in un van blindato di un potenziale cliente, era la prima volta che lo incontravo, non lo conoscevo. In alcuni paesi c’è anche la possibilità di usufruire di taxi guidati solo da donne, tramite app specifiche.
I dati però suggeriscono che non sia solo la strada uno dei temi di nostra preoccupazione. Delle ricerche condotte da Premier Lodges hanno riscontrato che il 42% delle donne in business travel abbiano richiesto i seguenti servizi accessori all’alloggio a tutela della propria sicurezza: servizio accompagnamento alla camera in ore serali, camere vicine all’ascensore, checkin discreto con numero di camera invisibile, parcheggi ben illuminati, porte con spioncino. Per quanto mi riguarda, tendo sempre ad assicurarmi che gli hotel siano h24 e siano in grado di fornire un’assistenza costante, contando su strutture sufficientemente internazionali e mentalmente estrutturate ad accogliere una prenotazione singola di una donna non accompagnata. Verifico sempre che l’hotel sia collocato in una zona della città in cui poter rientrare in maniera sicura a qualsiasi ora. Preferisco le strutture dotate di ristorante pulito, room-service e palestra, sono un’ottima opzione quando ho bisogno di riposarmi, sentirmi a casa ed evitare di mettermi in cammino soprattutto dopo un lungo viaggio. Una ricerca condotta dalla National Sleep Foundation e Hilton Hotels ha riscontrato che le donne sono il 20% più sensibili alla qualità del proprio sonno rispetto agli uomini, con aspettative maggiori su cuscini, materassi, pulizia e accoglienza della stanza, nonché alla dotazione dei kit nella toilette. Spunti interessanti che potrebbero dare nuova forma al settore dell’hospitality vista la crescente partecipazione femminile al viaggio di lavoro internazionale.
Vanity kit a parte, il capitolo finale della nostra sicurezza riguarda il nostro outfit, la nostra carta di presentazione. Ebbene si, in questo lavoro l’abito fa il monaco, comunica molto di noi, soprattutto in Paesi dove si pone molta attenzione alla discrezione, ai colori, ai dettagli. Molte volte mi sono soffermata a costruire l’outfit più adeguato per rispettare la cultura locale ed assicurarmi di instaurare un dialogo sereno ed appropriato nel corso del meeting, nonché per mettere l’interlocutore a proprio agio. Capire l’istituzionalità o l’informalità dell’incontro è fondamentale per orientarsi nella scelta, a volte la scelta è guidata anche dalla personalità del cliente o dalla propensione all’etichetta del paese locale. Normalmente un classico look da lavoro con camicia/t-shirt, blazer e pantalone a sigaretta o loose-fit abbinato a dei mocassini, stringate o sneakers si è rivelato essere sempre un’ottima scelta in praticamente tutti i paesi del mondo. Ho visto delle colleghe occidentali vestire l’abaya in alcune fiere in Medio Oriente, episodio che non è stato accolto con molto favore da alcuni degli astanti del posto. Talvolta mantenere un profilo equilibrato, coerente con la propria provenienza e lo propria identità si rivela essere la scelta più adeguata e denotativa di integrità e sicurezza. In molti casi ho riscontrato che chiedere indicazioni sul dresscode più adeguato sia stato uno scrupolo molto apprezzato, è un dettaglio che può fare la differenza tanto quanto il rispetto delle dinamiche gerarchiche e degli stili di comunicazione nell’interazione con l’azienda partner.
Non sembra uno spasso. Forse la scrivania è molto più rassicurante, più “tranquilla”, più “adeguata” e meno pericolosa per noi donne. Forse non riuscirò a reggere questi ritmi quando non sarò più fisicamente “giovane”. Forse cambierò. O forse no. Credo che il fascino di imbattersi in una nuova discussione con qualcuno che si sta per svegliare a New York e per coricare a Tokyo alle 14 italiane non tramonterà mai. Tantomeno la voglia di andare ad incontrare questi due signori, di ascoltare la chiamata all’imbarco del prossimo volo e di lamentarmi per i passeggeri caotici che non sono abituati a stare in fila. Credo apprezzerò sempre la magia di una cena solitaria e malinconica la sera per riflettere sulla mia quotidianità in Italia, o sugli sconosciuti che mi stanno attorno al ristorante. Alcuni luoghi e persone hanno il potere di risvegliarci dentro, o di scuoterci. Alcune missioni sono così impervie e tortuose che richiedono mesi di studio e negoziazioni, pressioni ad un risultato che rallenta ad arrivare. Quando finalmente è scacco matto sappiamo che la realizzazione di una vendita non è meramente lavoro, è ciò che ha lasciato la nostra personalità, la nostra perseveranza e creatività, il nostro marchio italiano. Si, è bello vedere anche il sorriso che lascia il suono del nostro paese “Italia” nel mondo. Sapere che abbiamo contribuito a renderlo possibile anche noi ragazze e donne italiane, non solo perché siamo fantastiche ma soprattutto perché siamo tremendamente brave, ci rende semplicemente imbattibili.
Come costruire per noi stesse un percorso equo, accessibile e sicuro a questo e svariati altri impieghi “per uomini”? Conoscenza, consapevolezza, azione. Lo studio delle dinamiche globali, di una base di diritto internazionale e delle nostre tutele legali è il primo passo per la tutela della nostra sicurezza. La formazione nelle aziende e l’implementazione di strumenti informativi che disseminino know-how sul ricorso a sedi diplomatiche, piattaforme di assistenza e centri di supporto sono un altro passo per aiutarci a partire. Infine? Stabiliamo delle reti e costruiamo delle community dove possiamo condividere tra di noi delle informazioni sincere e utili, il cambiamento vero e sano passa attraverso un dialogo concreto e solidale, contenuti credibili, tematiche solide e tangibili, poco retoriche, che posso davvero fare la differenza.